Crimea, il mito al servizio del potere

Lorenzo Della Corte

Ci sono avvenimenti che cambiano il corso dei conflitti. L’esplosione che alle 6:15 dell’8 ottobre ha gravemente danneggiato il ponte di Kerch è uno di questi. Riuscire a colpire uno dei simboli della rinascita della Federazione Russa, il giorno del settantesimo compleanno di Vladimir Putin, è stato un turning point della guerra che sta lacerando il territorio ucraino.

L’attentato al ponte di Kerch è stato un duro colpo da assorbire per Mosca. Il Cremlino, colpito nell’orgoglio, ha ordinato un vigoroso attacco di rappresaglia su diverse città ucraine: Leopoli, Zhtomyr, Dnipro, Obuhiv, Khmalenytsky e, soprattutto, Kiev che, da diverso tempo, era stata risparmiata dai raid russi e si avviava verso una apparente normalità. L’orso ha reagito ferocemente.

Il ponte di Kerch nella geostrategia del presidente Putin non rappresenta solamente l’unico anello di congiunzione terrestre tra la Federazione e la penisola, ma è il coronamento di un progetto geopolitico millenario che trova le proprie origini nei sogni panortodossi della dinastia Romanov. Il pan – ortodossissimo fu la stella polare che guidò i progetti geopolitici della dinastia Romanov, la quale utilizzò la politica missionaria della Chiesa ortodossa sia per preparare l’annessione delle regioni  bramate, sia  per rinsaldare i rapporti con quei popoli uniti nella fede ortodossa che avrebbero permesso, negli scenari geostrategici russi, di realizzare quell’anelito che ha accompagnato e tutt’ora accompagna la Russia lungo tutta la propria storia millenaria: lo sbocco sui mari caldi e sul Mediterraneo.

L’annessione della Crimea fu il primo grande passo verso la realizzazione del progetto di potere immaginato da Vladimir Putin, ovvero la consacrazione della nuova Mosca, una Russia non più relegata ai confini dettati dalla fine della Guerra fredda, ma proiettata verso un ritorno a prospettive spaziali più vicine a quelle sovietiche, svincolandosi dal ruolo subalterno che la storia le aveva imposto ed emergendo come nuovo player globale, attore principale del nuovo ordine multipolare. 

Per legittimare la decisione unilaterale dell’annessione della penisola, Putin si è affidato a un discorso narrativo volto alla commistione di due strategie politiche: la real(geo)politik e l’affective geopolitics, stemperando la rigida visione di una realpolitik fredda e calcolatrice con il “calore” di una geopolitica di forti sentimenti e credenze. La volontà di ricorrere al “mito crimeano”, patria del cuore della Rus’ cristiana, è stato l’artifizio retorico per rivendicare la propria missione nella difesa dei compatrioti russi all’estero. Tale strategia comunicativa è la medesima utilizzata per giustificare l’invasione del territorio ucraino.

La Crimea ha sempre avuto un fascino particolare nell’immaginario spaziale russo, come scrisse Potëmkin in una lettera all’imperatrice Caterina II: “La città di Cherson nella Tauride è la fonte del nostro cristianesimo e della nostra umanità […]. Qui c’è qualcosa di mistico.”

Essa è la terra in cui non solo venne battezzato Vladimir I, ma fu anche capitale meridionale dell’impero di Caterina II, dopo la conquista per mano di Potëmkin nel 1783.

L’annessione della Crimea, che fu donata da Nikita Chruščëv all’Ucraina nel 1954 per commemorare il 300º anniversario del Trattato della Perejaslav, è per la Russia un asset geostrategico fondamentale, in quanto essa è la porta d’accesso per i “mari caldi”. Proprio a Sebastopoli, infatti, è attiva una base navale che permette di raggiungere, in maniera rapida: il Mediterraneo, i Balcani, il Medio Oriente e, soprattutto, la base di Tartus in Siria; unica base navale posseduta dalla Russia fuori dal proprio territorio.

In un mondo che credevamo post ideologico, la mitopoietica putiniana è tornata prepotentemente ad utilizzare la forza del mito per legittimare mere volontà politiche. Ma di fronte all’orrore della guerra, non vi è narrativa che tenga.