Il conflitto nucleare è la fine del mondo. Le ragioni del dialogo contrapposte alla forza

Lorenzo Della Corte

Nelle ultime settimane, dalla minaccia atomica avanzata da Vladimir Putin, si è aperto un dibattito pubblico sull’eventualità di una guerra nucleare.

Se il dialogo, il confronto sono farmaci indispensabili per mantenere in salute la democrazia, non è altrettanto salutare insinuare nelle coscienze dei cittadini l’ipotesi di un possibile conflitto nucleare.

Il conflitto atomico è e deve rimanere qualcosa di inimmaginabile, di impensabile. Il solo ipotizzare un evento così distruttivo dovrebbe fermare qualsivoglia tentativo di discussione. La guerra è deprecabile, la guerra nucleare è la fine del mondo.

Naturalmente, il rifiuto, o meglio – citando l’articolo 11 della Costituzione – il ripudio della guerra è un discorso che dovrebbe valere in ogni contesto e teatro bellico, non solo dove ci sentiamo maggiormente coinvolti. Ma sia la ragion di Stato che le pur comprensibili ipocrisie dell’opinione pubblica ci impongono un livello di attenzione più alto laddove ci sentiamo più immischiati, sia a livello politico che a livello emotivo.

Ciò premesso, questo non significa non doversi attivare al fine di silenziare i cannoni che devastano la steppa ucraina, assolutamente no. L’invasione promossa da Putin deve essere arrestata, riconducendo a più miti consigli lo zar pietroburghese. L’Occidente, come non succedeva da molti decenni, si è dimostrato unito e compatto, pur con qualche comprensibile cautela vista l’eccezionalità dei tempi che ci troviamo a vivere, nel tentativo di sostenere la resistenza ucraina e trovare una soluzione diplomatica allo scontro bellico in atto.

Un fatto deve essere chiaro, solo la via della diplomazia potrà evitare il peggio: la terza guerra mondiale. Uno spettro che si aggira per l’Europa e che, memori di ciò che è stato, non solo la nostra classe dirigente, ma anche l’opinione pubblica, deve rigettare in toto. Finché ci sarà spazio per il dialogo, finché ci sarà un tavolo sul quale confrontarsi, è nostro imperativo categorico lavorare affinché si possa trovare una soluzione che, tenendo in considerazione le ragioni dei contendenti, possa risultare soddisfacente per le parti in causa.

Come ha esposto Monsignor Camisasca su Tempi, l’Europa potrà farsi interprete di un ruolo risolutivo in questo conflitto solamente se saprà riscoprire il proprio patrimonio comune di cultura, idee, libertà: «Questa guerra è straziante, portatrice di immensi lutti. Dobbiamo lavorare e pregare perché finisca al più presto, anche se questo volesse dire cedere su qualche punto. L’Ucraina ci sta mostrando il volto più grande e più bello dell’Europa: l’amore alla patria, alla terra, alla democrazia, all’Occidente, alla famiglia. Il coraggio di combattere per questi valori. La fede da cui nasce la speranza. Tutto ciò non può che far bene ad un’Europa esangue, senza speranze vere. La vita non è progresso, né comodità. È anche sacrificio, lotta. In alcuni momenti questa consapevolezza può offuscarsi. Poi improvvise svolte ci obbligano a riprendere coscienza di ciò che avevamo dimenticato, chiusi nel nostro individualismo tranquillo».

Appellarsi alle vie della diplomazia non è e non deve essere percepito come un’ammissione di debolezza o permissività rispetto a quanto attuato dal Cremlino, al contrario dare ancora spazio al dialogo deve essere la prova della superiorità del raziocinio sulla forza, della libertà sull’imposizione, dei valori della democrazia sulle pretese dell’autocrazia.