Il discorso dello Zar e il dialogo tra Biden e Xi, la crisi ucraina tra propaganda e diplomazia

Lorenzo Della Corte

Per i nostri fratelli, per la nostra storia, per i nostri valori. Questi i tre pilastri su cui il presidente Putin ha costruito il proprio discorso – pronunciato venerdì 18 marzo allo Sport Center Lužniki di Mosca  – per celebrare l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa.

In un tripudio di bandiere bianco blu e rosse, lo zar ha dismesso le vesti dell’uomo di apparato, per trasformarsi in capopopolo. Il discorso, dai toni profondamente patriottici, è stato redatto per stringere a sé la nazione russa e rinsaldare il fronte interno. 

Il fine era duplice: da un lato c’è stata la volontà di rassicurare la folla moscovita sugli sviluppi dell’operazione speciale, dall’altro, invece, l’obiettivo è stato quello di avvertire l’Occidente sulla ferma volontà di proseguire l’invasione e dimostrare, altresì, che il popolo russo è dalla parte del proprio zar.

«Sappiamo cosa dobbiamo fare, come farlo, e a quale prezzo. E sicuramente realizzeremo tutti i piani che abbiamo predisposto» ha rassicurato la platea il leader del Cremlino. 

«Salvare le persone da questa sofferenza, da questo genocidio» ha continuato dal centro del palco Putin «questo è il motivo principale, il motivo e l’obiettivo dell’operazione militare che abbiamo lanciato nel Donbass e in Ucraina, questo è esattamente l’obiettivo.»

Non pronuncia mai la parola война (guerra) il presidente, non è concesso dalle nuove leggi promulgate dalla Duma e non fa comodo alla propaganda di Stato. Non è necessario spaventare il fronte interno con gli orrori che si stanno perpetuando negli assedi di Kiev, Kharkiv e, soprattutto, Mariupol. Quello che serve, al contrario, è strutturare una narrativa che, non solo vada a edulcorare il significato delle parole, ma che permetta di smuovere le corde più profonde dell’animo russo e, in tal modo, aiuti a superare le non poche difficoltà che le truppe russe stanno affrontando in terra ucraina.

«Mi vengono in mente parole della Sacra Scrittura: non c’è amore più grande, che dare vita per i propri amici. E vediamo come i nostri ragazzi agiscono e combattono eroicamente durante questa operazione» che per Putin viene confermato dall’atteggiamento dei militari russi che combattono «spalla a spalla, si aiutano, si sostengono a vicenda e, se necessario, coprono il proprio fratello con i loro corpi da un proiettile sul campo di battaglia». Il popolo russo è, secondo le parole del proprio leader, unito come non accadeva da molto tempo, la vulgata del Cremlino dichiara l’orgoglio russo alle stelle.

Venerdì 18 marzo non è stato però solamente l’anniversario dell’annessione della Crimea; infatti, mentre il presidente russo dava lustro a tutto il proprio repertorio retorico: dalla denazificazione, alla citazione delle Sacre Scritture fino, chiaramente, all’unità dei popoli ex sovietici, il presidente Biden e il proprio omologo cinese, Xi Jinping, sono tornati a parlarsi. Nessun risultato eclatante, ma una telefonata che permette di tenere vivo il binario della diplomazia e allontana l’allargamento del conflitto al dragone cinese che, nonostante sia legato da un’amicizia senza limiti né confini con l’orso russo, riconosce i vantaggi prodotti della Pax Americana. Infatti, al di là di qualsivoglia contrasto geopolitico, tale status quo ha permesso alla Cina di avere un’incredibile crescita economica negli ultimi trent’anni e, di conseguenza, non si ritiene sia ancora giunto il momento in cui imporre un sistema economico globale sinocentrico.

La Cina, dunque, non può e non vuole sbilanciarsi: il vecchio mondo concede ancora dei vantaggi, il nuovo non è ancora pronto e, per queste ragioni, non sarà l’equilibrista Xi l’arbitro della disputa in atto tra Federazione Russa e Occidente poiché, citando un antico adagio cinese, il leader del Celeste Impero ha decretato: «spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo».