Il tentativo di recuperare la perduta influenza nel Mediterraneo comporta dei rischi

redazione

Giorgia Meloni continua a mostrarsi attivissima sullo scenario internazionale, recandosi in Algeria e in Libia e annunciando prossime visite in Svezia, Germania ed Ucraina. Un simile dinamismo caratterizza l’azione del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il quale compie visite in Turchia, in Tunisia, in Egitto e accompagna la premier a Tripoli. Il nostro Paese sembra così recuperare l’iniziativa soprattutto nel Mediterraneo, nel tentativo di riguadagnare almeno parte dell’influenza perduta negli ultimi 30 anni.

Già nel mese di novembre Tajani e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, avevano visitato la Serbia e il Kosovo. Martedì 24 gennaio lo stesso ministro degli Esteri presiede a Trieste una conferenza sul ruolo dell’Italia nei Balcani occidentali, per definire la strategia nazionale e rafforzare la presenza dell’Italia in quell’area. Tajani annuncia, inoltre, una prossima conferenza di alto livello che porterà a Roma i rappresentanti di tutti i Paesi della regione. L’impegno della nostra diplomazia nello scongiurare un inasprimento della crisi tra la Serbia e il Kosovo è risultato evidente durante e dopo visita dei nostri due ministri a Belgrado e Pristina. L’Italia non ha mai smesso di sostenere l’allargamento dell’Ue a questi Paesi ed è chiaro l’intento del governo di recuperare uno spazio economico e politico che era stato nostro e che è stato in buona parte perduto in favore di Germania, Turchia, Cina e in parte della Francia.

L’impegno maggiore, tuttavia, è sul Nord Africa. Le missioni di Tajani in Turchia e in Egitto servono a cercare di trovare una convergenza che possa favorire la stabilizzazione della Libia. Certamente il ministro degli Esteri affronta in Egitto anche il tema dell’energia, visto che Eni è il primo operatore del settore nel Paese, e che proprio dall’Egitto dovrebbe arrivare in Italia gas liquefatto per l’equivalente di 3 miliardi di metri cubi.

La visita in Tunisia testimonia, invece, la consapevolezza e la preoccupazione dei vertici della nostra diplomazia per la profonda crisi che attraversa un Paese a noi molto vicino e molto legato. Dalla Tunisia parte infatti una buona parte dei migranti illegali diretti verso l’Italia, e sempre dalla Tunisia passa il gasdotto Transmed che, partendo dall’Algeria, porta nel nostro Paese la maggior parte del metano d’importazione.

La visita di Giorgia Meloni ad Algeri fa seguito a quelle compiute dal presidente Sergio Mattarella e dall’ex premier Mario Draghi. Con 25 miliardi di metri cubi di gas forniti nel 2022, l’Algeria è di gran lunga il nostro primo fornitore di gas, ma è anche uno dei nostri più leali alleati. L’Italia sostenne molto concretamente la guerra di liberazione algerina, iniziata nel 1954 e conclusasi con l’indipendenza nel 1962, appena cinque anni dopo l’umiliazione subita da Francia e Gran Bretagna nella crisi di Suez, ad opera degli Stati Uniti. L’Algeria non era una colonia, ma “territorio metropolitano” della Francia, e il sostegno italiano alla lotta indipendentista non è mai stato dimenticato né dagli algerini, che considerano Enrico Mattei un eroe nazionale, né dai francesi, che da allora hanno sempre tentato di recuperare l’influenza su Algeri, ed allo stesso tempo di annientare la zona d’influenza dell’Italia in tutto il Nord Africa.

I tentativi di sottrarre la Libia all’area d’influenza italiana iniziarono già nel 1980. In quell’anno le informazioni fatte arrivare tempestivamente dal nostro governo a Muhammar Gheddafi provocarono il fallimento di un colpo di Stato favorito da Francia e Gran Bretagna. Quello stesso anno si verificarono alcuni eventi drammatici, dalla strage di Ustica a quella di Bologna. Proprio nel commentare la visita della Meloni ad Algeri, il direttore di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, ha ricordato sul Sole 24 ore come, “secondo alcune ipotesi”, sarebbe stato proprio il sostegno alla lotta di liberazione algerina a provocare l’attentato che uccise Mattei nel 1962, tre mesi e mezzo dopo la proclamazione d’indipendenza.

A partire dal 1992, con l’inizio di Mani pulite, l’influenza italiana nel mondo non ha fatto che contrarsi. All’apice della sua forza, con i governi guidati da Bettino Craxi e Giulio Andreotti, il nostro Paese sosteneva il governo democratico di Raul Ricardo Alfonsin in Argentina; il sindacato democratico polacco Solidarnosc; il governo spagnolo post-franchista di Felipe Gonzalez; legittimava l’Olp di Yasser Arafat, facendone un interlocutore possibile non solo per Europa e Stati Uniti, ma perfino per Israele; sosteneva il presidente somalo Siad Barre; giocava partite espansive con le proprie industrie ed imprese finanziarie negli Usa, nell’Urss, in tutto il mondo arabo, in Africa e anche in Europa, dove Carlo De Benedetti tentò la scalata alla belga Société Générale e Silvio Berlusconi intraprese l’avventura francese di “La Cinq”. Da allora l’Italia ha visto contrarsi costantemente la propria area d’influenza internazionale, fino a trovarsi a dover difendere con le unghie e coi denti la propria presenza in Libia.

La visita compiuta a Tripoli da Giorgia Meloni sembra segnare un’importante inversione di tendenza, resa possibile, ancora una volta, dal sostegno che gli Stati Uniti offrono al nostro Paese. L’accoglienza riservata al capo del nostro governo indica una precisa scelta di campo del governo di Abdulhamid Dabaiba. L’intesa firmata da Eni e dalla National Oil Company libica rappresenta un punto di svolta nella lunga lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse energetiche libiche: uno scontro che ha visto e ancora vede impegnati soprattutto francesi, russi e turchi, nel tentativo di ridurre la nostra presenza nel Paese. Anche l’accordo per la consegna di cinque motovedette al Governo di unità nazionale libico è cruciale, perché rafforza la collaborazione tra i nostri due Paesi nella difesa e della sicurezza, settori in cui la Russia, la Turchia e la stessa Francia sono ancora più che presenti. I critici affermano, giustamente, che la Guardia costiera libica è tutto fuorché affidabile, ma la riduzione del potere dei “signori della guerra” locali passa per il rafforzamento delle istituzioni, e un intenso lavoro di ricostruzione delle strutture statali è la cosa più urgente da fare in Libia.

L’azione diplomatica intrapresa dall’esecutivo in poche settimane sembra rendere possibile, per la prima volta dopo tanti anni, un recupero di quella che un tempo fu la nostra sfera d’influenza nel cosiddetto “Mediterraneo allargato”.

Il governo del Paese, almeno per ora, appare saldo. Soprattutto con l’uscita del Regno Unito dall’Ue, l’Italia ha visto improvvisamente accresciuto il proprio peso specifico, non solo perché nell’Unione i grandi Paesi sono passati da quattro a tre, ma anche perché il nostro Paese è l’unico che possa farsi interprete degli interessi Usa in seno al Consiglio europeo. Francia e Germania, infatti, costituiscono l’essenza stessa dell’Europa, mentre Spagna e Polonia sono Paesi troppo piccoli e periferici per poter influire in maniera determinante all’interno del Consiglio Ue.

Di colpo, quindi, l’Italia ha acceso l’interesse di Washington. L’arrivo di Draghi alla presidenza del Consiglio non è stato casuale e, sapientemente, Giorgia Meloni ha scelto di schierarsi senza esitazioni al fianco degli Usa, sia per quanto riguarda la guerra in Ucraina, sia nel confronto strategico con la Cina. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che nelle poche settimane del suo governo la premier ha già incontrato due volte il premier giapponese Fumio Kishida.

Il già più volte annunciato “Piano Mattei” per l’Africa s’ispira a una filosofia di sviluppo non predatoria, ma di collaborazione ed aiuto allo sviluppo che era propria del fondatore dell’Eni. Il fatto che la Russia, attraverso i mercenari della compagnia “Wagner”, abbia scacciato i francesi dai Paesi del Sahel – Mauritania, Repubblica Centrafricana, Mali, Burkina Faso e forse, in un prossimo futuro, anche Ciad – viene avvertito negli Usa come un grave rischio geopolitico, e non è un caso che l’appoggio di Washington al governo italiano, nel tentativo di stabilizzare la Libia, appaia oggi più determinato.

Certamente questo grande attivismo della premier italiana e del suo governo non può far piacere ai nostri cugini francesi. A dir la verità, il tentativo italiano di recuperare influenza nel Mediterraneo non piace nemmeno ad Ankara e a Londra. Le resistenze, fuori e dentro il nostro Paese, saranno dunque fortissime, anche perché a questa vigorosa azione di politica estera la Meloni vuole accompagnare il rafforzamento del sistema politico e istituzionale – attraverso la riforma costituzionale e della giustizia – e un recupero della sovranità economica, riportando sotto il controllo nazionale aziende strategiche come Telecom Italia e l’ex Ilva.

Nei prossimi mesi le tensioni potrebbero dunque crescere in maniera esponenziale dentro e fuori il nostro Paese, potendo arrivare a comportare rischi per la sicurezza. In questo senso, le azioni dimostrative contro le nostre sedi diplomatiche a Barcellona e a Berlino, rivendicate dagli “anarchici” proprio mentre la Meloni si trovava a Tripoli, non sono di buon auspicio. Per far fronte alle sfide della nuova situazione geopolitica, sarebbe bene che i nostri servizi alzassero il livello d’attenzione, e che tutte le forze politiche responsabili – fatta salva la giusta e normale contrapposizione politica – lavorassero al rafforzamento del Paese e della sua posizione, in uno scenario internazionale che la guerra in Ucraina ha reso più volatile e denso di rischi.