La piazza cinquecentesca, Giano bifronte

Lorenzo Della Corte

La piazza rinascimentale rappresenta una metafora dello spazio pubblico della prima età moderna, essa è l’arena del consenso e del conflitto, luogo ambivalente nel quale potere e popolo si confrontano.

In epoca rinascimentale alla piazza fu data molta importanza, la platea magna era la rappresentazione emblematica del potere del governo comunale, il quale entro i confini della piazza impone architettonicamente il proprio imperio sulla cittadinanza. Infatti, lo studio architettonico delle piazze era effettivamente un atto politico, la piazza era considerata il palcoscenico del potere, il palco dal quale il sovrano imponeva la propria autorità. È qui che il potere sì esibiva e faceva circolare la propria voce, è questo il luogo adibito ai grandi trionfi, alle cerimonie, alla rappresentazione del potere in senso propagandistico. La piazza è, altresì, lo spazio pubblico prescelto per la promulgazione delle leggi, un rito volto a confermare, volta per volta, che l’unica autorità legittima era quella governativa. La pubblicazione delle leggi, infatti, nel Cinquecento è la sola forma di comunicazione riconosciuta tra sovrano e popolo, è una comunicazione controllata e unidirezionale: un monologo. L’iter delle proclamazioni era ben strutturato e tendeva al raggiungimento della massima visibilità possibile: era lo stato che ribadiva il proprio comando sulla popolazione e sul territorio. 

Tali pubblicazioni a Venezia erano effettuate dai “comandatori”, ovvero uomini comuni le cui uniche caratteristiche essenziali erano: saper leggere e avere un tono di voce profondo che permettesse di propagandare il verbo lungo le calli veneziane. I comandatori erano ben riconoscibili, essi erano vestiti di turchino, con un berretto rosso e una spilla d’oro con lo stemma di San Marco. Il loro lavoro consisteva, dopo aver radunato più persone possibili in determinati luoghi della città, nel declamare a voce alta i decreti governativi e, dopo la proclamazione, affiggere le stampe in spazi con ampia visibilità. La pubblicazione era l’unico modo affinché il popolo conoscesse le volontà e le leggi del sovrano, per questo la proclamazione doveva seguire un iterprestabilito che permettesse la distribuzione del messaggio nella maniera più capillare possibile. 

I proclami affissi erano noti come le “lettere con San Marco”, essi avevano la duplice funzione sia di diffondere il messaggio governativo, sia di occupare graficamente lo spazio pubblico. In alcuni casi particolari, essi venivano scolpitinella pietra cosicché potessero vincere la prova del tempo. 

Non solo i proclami a Venezia, ma anche le bulle e le volontà pontificie erano destinate ad una distribuzione curata nei minimi dettagli. Giulio II nel 1510 promulgò una bolla pontifica contro il duca di Ferrara Alfonso I d’Este e, per garantirsi un pubblico molto vasto, emise, oltre alla bulla in latino, un Summario in volgare nel quale si ribadiva la necessità che i contenuti fossero divulgati il più possibile. Per comprendere l’importanza della diffusione del messaggio, è opportuno sottolineare che il Papa Della Rovere non si limitò soltanto a esortare la diffusione delle proprie volontà, ma decretò, altresì, una sanzione per chiunque avesse ostacolato la pubblicazione e ne avesse impedito la divulgazione.

Il potere cinquecentesco, dunque, riteneva la piazza il luogo dove imporre il proprio imperio: un palcoscenico dove poteva esibirsi e sotto al quale relegava la popolazione, alla quale non era permesso null’altro se non l’acclamazione.Ciononostante, il popolo non sempre si accontentava di essere semplicemente uno spettatore, ma, alle volte sfidando il monologo autoritario, tentava di esibirsi quale deuteragonista sul palcoscenico dello spazio comune. Il potere pretendeva un pubblico disciplinato e ubbidiente, ma si scontrò con un pubblico riottoso e insubordinato, il quale, non pago del ruolo cucitogli addosso dal governo, entrava in scena e pretendeva un ruolo da protagonista. Numerose sono le testimonianze di cerimonie, rituali e trionfi nei quali l’autorità dovette sottostare alla volontà di rivalsa popolare. 

La voce del dissenso popolare non si limitava nel guastare le cerimonie, essa rispondeva anche attraverso la negazione dell’autorità governativa. Tale negazione poteva avveniremediante la procedura dello “smerdar proclami”, ovvero un’azione che non era solo un atto di violenza, ma come ci evidenzia uno dei maggiori esperti del Rinascimento italiano, Massimo Rospocher, “esprimeva resistenza a, o noncuranza per, l’ingiunzione del governo e quindi era un atto politico che esprimeva ribellione”. 

Questi erano dei modi con i quali il popolo rivendicava il proprio ruolo politico; infatti, la non pubblicazione invalidava ogni legge. La piazza divenne così il megafono dove il popolo poteva alzare la voce e, sperare, di esser ascoltato dal Palazzo. 

La piazza, in conclusione, non era solo il simbolo del potere comunale, ma anche l’espressione della vox populi, la quale negando al governo la possibilità di imporre il propriomonologo al dibattito pubblico, trasformava quel palcoscenico in un agone politico dove il dibattito si trasformava in una negoziazione conflittuale.

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