Lobbying e nuovi scenari, risultati del sondaggio di Public Affairs Advisors

redazione

Chi sono i lobbisti? Come operano? Come vengono percepiti? Come le aziende italiane fanno lobbying e come si organizzano per svolgere questa attività? Quali sono i settori più attivi ?

Sono alcune delle domande cui prova a rispondere una ricerca realizzata da Public Affairs Advisors, società di consulenza, partecipata dal Gruppo Value Relations e specializzata nelle attività di lobbying, e dalla società di indagini demoscopiche Acqua Market Research, che ha intervistato circa 200 manager di grandi aziende italiane (tra amministratori delegati, direttori generali, responsabili affari istituzionali). I risultati della ricerca contribuiscono a illuminare i contorni di un ormai vasto mondo professionale che gradualmente sta “uscendo allo scoperto”, per proporre servizi studiati sulla base delle esigenze di aziende, associazioni o gruppi di interesse che necessitano di dialogare correttamente con la politica, le istituzioni e con i loro stakeholder.

“Dalla ricerca emerge una nuova figura di lobbista, un professionista italiano ma di stampo anglosassone che finalmente pare liberarsi del retaggio storico di un’immagine poco cristallina, cucitagli addosso anche dai mezzi d’informazione”, afferma Giovanni Galgano, amministratore delegato di Public Affairs Advisors, che aggiunge “Chi opera oggi nelle relazioni istituzionali svolge un’attività trasparente, di elevata qualità, di cui le aziende hanno sempre più bisogno e che richiedono al mercato. Nel nostro paese esistono settori storicamente più inclini a svolgere questa attività come quelli della Sanità, della Farmaceutica e dell’Energia. Ma altri comparti si stanno organizzando in modo sempre più strutturato come quelli dei Servizi Finanziari, della Difesa ed Aerospazio, dell’IT e Telecomunicazioni”.

 

IDENTIKIT del LOBBISTA

Scorrendo il rapporto di ricerca, alla domanda “In chi identifica i lobbisti?” i manager italiani interpellati rispondono nelle agenzie di public affairs (82%), nelle associazioni di categoria (76%), nei professionisti indipendenti (57%), lasciando ai sindacati il quarto posto nella classifica, all’industria il quinto e ai think tank il sesto. Un implicito riconoscimento della funzione, del ruolo e della riconoscibilità dell’azione del lobbista professionista, anche fuori dall’azienda. Una specifica domanda della ricerca si focalizza sulle caratteristiche professionali che vengono richieste al consulente.  I manager interpellati sembrano maggiormente convinti da chi è in grado di costruire reti, relazioni e azioni di lungo periodo (67%): il “mordi e fuggi” non sembra premiare. Conoscenza del panorama politico e professionalità e reputazione del consulente sono gli altri aspetti che maggiormente le aziende ricercano in chi li deve affiancare nell’attività di lobbying, mentre spicca all’ultimo posto la risposta Brand dell’agenzia o del consulente (9%): la qualità del servizio viene ricercata a prescindere dal nome di chi lo realizza.

 

EFFICACIA E ASPETTI POSITIVI DEL “LOBBISTA DI PROFESSIONE”

Da rimarcare anche la risposta data al quesito “quali considera gli aspetti positivi del lobbying”, cui gli intervistati rispondono per la grandissima parte con l’integrazione costruttiva nel processo decisionale (80%), mentre minor peso viene dato ad altre attività tipiche del lobbista, come aumentare la risonanza locale e nazionale di un tema. In sostanza il top manager vuole influire sul processo decisionale, sulla formazione dei regolamenti e delle normative che lo potranno riguardare, conscio che senza un interscambio costante e professionale con i decisori difficilmente potrà raggiungere risultati apprezzabili. Ma come le aziende italiane si sono organizzate per svolgere l’attività di lobbying? A chi si affidano? Le risposte dei manager interpellati a questa domanda confermano una buona fiducia nell’associazione di categoria, che per il 58% degli intervistati rimane il primo interlocutore per le esigenze lobbistiche, ma allo stesso tempo ci dicono che le aziende si muovono direttamente – e pesantemente –  anche con i loro vertici manageriali (un analogo 58% di una domanda a risposta multipla). Spicca con il 30% la società di consulenza, che viene delegata dalle aziende a curare tutti o alcuni aspetti delle attività di public affairs.  “Un risultato impensabile in Italia solo fino a qualche anno fa – dice Giovanni Galgano – quando la figura del consulente esterno veniva più che altro utilizzata per attività di generiche pubbliche relazioni”. Aggiunge Andrea Cimenti, direttore di Acqua Market Research “Non è una classifica dei poteri forti, ma una fotografia, o meglio un autoscatto realizzato da chi quotidianamente opera nell’arena del business e ne riconosce vincitori e vinti”. Rimanendo in tema di efficacia, i manager intervistati ritengono che lo “strumento più utile di pressione” sui decisori sia l’incontro one-to-one (per l’83% del campione), che quasi doppia l’importanza riconosciuta alla lobbying indiretta realizzata grazie alle campagne di comunicazione mirate sul bisogno aziendale (49%).

 “I risultati della ricerca – commenta Giovanni Galgano, amministratore delegato di Public Affairs Advisors – indicano chiaramente che in Italia c’è necessità crescente di lobbying professionale. Ma dicono anche che il portato negativo del concetto di lobby è duro a morire, e che lo si teme in quanto così percepito dal grande pubblico. Forse costruire un rapporto migliore tra cittadini e istituzioni, tra cittadini e politica, tra aziende e pubblica amministrazione passa anche da una trasparente regolamentazione delle attività di public affairs. A maggior ragione in un momento storico e politico come quello che stiamo vivendo”.