Pasquino, tra satira e politica

Lorenzo Della Corte

Anticipando il termine post quem stabilito dagli studi di Habermas, vi sono degli studiosi, tra questi la storica Ottavia Niccoli, che sostengono che si possa parlare di una proto-opinione pubblica anche prima dei salotti borghesi del ‘700 analizzati dal filosofo tedesco.

Esempio di una possibile formazione embrionale di opinione pubblica è rintracciabile nelle pasquinate romane che, secondo quanto riportato dalla Niccoli nel suo “Rinascimento anticlericale”, seppur non siano la testimonianza di una coscienza politica consapevole, rappresentano un miscuglio di umori, sensazioni e voci che, nonostante la loro disorganizzazione, riuscivano a creare fermento e, parzialmente, condizionare la gestione della cosa comune.

La “pasquineria”, era un genere letterario riguardante la composizione poetica, diffuso a Roma tra il Quattro e il Cinquecento, con caratteristiche canzonatorie, satiriche, spesso violente e rivolte, perlopiù, contro il Papato e la curia romana. La pasquinata, nella definizione di Marucci, è «una breve satira, un epigramma specificamente rivolto a colpire un potente; un vituperium ad personam che sia però una personalità; una anonima stilettata la cui audience è determinata e direttamente proporzionale alla fama della vittima e al luogo d’affissione, necessariamente pubblico e frequentato, dell’infamante poesia ‒ o prosa, o battuta con disegno.»

Il nome di questa satira popolaresca trae origine dalla festa di Pasquino, celebrata ogni 25 aprile, durante la quale era usanza apporre alla statua di Pasquino dei componimenti che, per i primi tempi, erano perlopiù scolastici. Successivamente, il livello elementare venne superato e iniziarono a delinearsi nuove sfumature di epigrammi: componimenti sempre più aspri, con una satira più pungente, alle volte addirittura infamante. Il cambio di registro fu dovuto, probabilmente, al mutamento degli scrittori. Infatti, le pasquinate non furono più composte da semplici scolari, ma, presumibilmente, divennero un mezzo di comunicazione utilizzato anche dai membri del clero.

Le pasquinate diventarono un mezzo per rappresentare un disagio o una volontà politica, oppure per esprimere il proprio appoggio ad una o all’altra fazione che si contendevano il potere nella curia romana. Questi epigrammi, però, criticavano i personaggi pubblici, li deridevano, li infamavano, ma i “pasquini” si tenevano ben lontani dall’opportunità di attaccare l’Istituzione in sé e per sé. La critica era personale, mai istituzionale, poiché i compositori stessi potevano far parte di quella ristretta élite.

Il popolo non subiva passivamente il messaggio, bensì, interiorizzandolo, né diveniva un vettore e dava vita a piccoli movimenti di discussione. Una primordiale opinione pubblica lanciava i propri primi vagiti e si arricchiva grazie ai componimenti e ai pettegolezzi che prosperavano per Campo de’ fiori, a Castel Sant’Angelo e in tutti quei luoghi dove si potevano trovare delle pasquinate volte a rafforzare l’opinione negativa che il popolo aveva rispetto non al Papato in sé, ma nei riguardi dei prelati.

Un esempio tra tanti è il ritrovamento di una vignetta antimedicea che raffigurava San Pietro, allettato, con una scritta in latino che chiedeva se avesse bisogno di un medico e il Santo rispose laconicamente: “ahi sono stati i medici la causa del nostro male”.