Rinunciare alla privacy per combattere il coronavirus? Accademia Italiana Privacy: “si può fare, ma attenzione ai rischi”

redazione

Di fronte all’emergenza sanitaria collegata alla diffusione di Covid-19, si stanno facendo largo anche in Italia ipotesi di un approccio simile a quello adottato della Corea del Sud, che ha previsto l’utilizzo di strumenti tecnologici per tracciare i movimenti dei cittadini e poter isolare così i casi di infezione.

Le valutazioni sull’efficacia e i rischi di un approccio di questo genere richiedono un’attenta valutazione e sgombrare il campo da un primo, possibile, equivoco. Una strategia del genere non avrebbe l’obiettivo di monitorare gli spostamenti di chi è già stato identificato come positivo al virus.

Gli individui in questa condizione, infatti, sono già tenuti a rimanere in quarantena e l’utilizzo della tecnologia sarebbe (si spera) inutile per persone che sanno perfettamente di dover azzerare i rapporti sociali.

Il tracciamento delle persone sarebbe utile invece per creare un database che consenta, a posteriori, di verificare gli spostamenti di chi si scopre essere positivo al coronavirus in modo da poter identificare le persone con cui è venuto in contatto e agire di conseguenza per sottoporli al test.

In altre parole: si tratterebbe di avviare un meccanismo di registrazione degli spostamenti di tutta la popolazione e la creazione di un database a disposizione delle autorità che gli permetta di ricostruire minuziosamente la loro attività nel caso in cui questo fosse necessario.

La semplice registrazione degli spostamenti tramite cella, però, non è sufficiente per sapere con quali persone il soggetto è venuto davvero a contatto ed è impensabile immaginare di controllare tutte le persone che si sono trovate in sua prossimità.

Una soluzione per restringere il campo potrebbe essere quella di chiedere ai cittadini di installare volontariamente un’applicazione che, oltre a usare un sistema di rilevamento basato su GPS (più preciso della triangolazione tra celle) possa accedere a informazioni come l’elenco dei contatti (anche sui social network) per “filtrare” gli incontri evidenziando quelli più rilevanti, cioè quelli che riguardano effettivamente persone con cui potrebbe aver avuto contatti per poterle avvisare e consentirgli di effettuare il test..

Stiamo parlando, quindi, di una colossale deroga alle norme sulla privacy. Qualcosa per cui sarebbe necessario, prima di tutto, un intervento legislativo ad hoc. In secondo luogo, un’ipotesi del genere richiederebbe la predisposizione di un sistema estremamente trasparente, con accorgimenti che garantiscano non solo l’accesso limitato alle sole informazioni davvero rilevanti, ma anche il fatto che i soggetti autorizzati ad accedervi siano puntualmente identificati e ristretti alle autorità competenti.

Infine, un progetto del genere deve necessariamente prevedere un termine e un processo di shut down che preveda la cancellazione di tutti i dati e il suo smantellamento una volta superata la crisi. Il rischio che un sistema del genere, una volta messo in moto, possa trasformarsi in uno strumento di sorveglianza di massa è infatti inaccettabile.

Qualsiasi iniziativa in questo senso, quindi, deve passare attraverso un rapido ma approfondito esame degli aspetti legati alla tutela della privacy e della riservatezza dei cittadini. Sia in corso di utilizzo, sia nell’immediato futuro.