Ubi bene, ibi patria: internazionalismo della cultura

Lorenzo Della Corte

Durante gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, mentre l’Europa era devastata dalle conseguenze della follia nazista, vi fu un’élite culturale di valenti uomini politici e filosofi liberaldemocratici che tentarono di vedere oltre l’orrore della guerra, prospettando nuove possibilità per il Vecchio continente.

Constatato che le vie politiche non avevano portato i frutti sperati, questa élite culturale, che trovava voce nelle riviste politiche Lo Stato Moderno, La Nuova Europa e L’Acropoli, tentò di instillare nelle coscienze popolari quel pathos europeo patrimonio elitario ricco di contenuti, ma privo di avvenire, se relegato ad un cenacolo ristretto. Percepita la necessità di diffondere il più possibile il generoso programma europeista, essi si impegnarono affinché si ampliasse il pubblico che poteva accogliere tale prospettiva per renderla, così, un’idea realizzabile, realista.

Secondo questo nugolo di pensatori, dal momento che ritenevano che la classe dirigente, prona sulle logiche della real politik, non percepisse questo bisogno, ritennero che sarebbe stato il sentire comune delle popolazioni europee a creare i presupposti affinché tale proposito potesse discendere dal mondo iperuranio delle idee astratte, all’immanenza delle politiche mondane.

La storia europea testimonia l’esistenza di consonanze spirituali, culturali e politiche tra i popoli europei: il diritto pubblico dell’Impero romano, il comune battesimo che fondò la res publica Christianorum ed il vincolo culturale che, durante il Rinascimento europeo, creò la res publica humanarum litterarum. Un vincolo che resisteva nonostante i tempi e le guerre. Per sottolineare tale perseveranza, Barni ripropose una lettera di Pietro Bembo in cui sintetizzò questo vincolo culturale nella massima: ubi bene, ibi patria.

L’ambizioso progetto europeo non si sarebbe però potuto concretizzare secondo quanto sostenuto da Luigi Salvatorelli, perpetuando un fatalismo insito nel mitologema della creazione morale europea, bensì attraverso una certosina spinta organizzativa che non rinnegasse le varie individualità ma che le integrasse in un’entità superiore. Questo compito fu assegnato all’élite dell’alta cultura europea che, dovendosi confrontare con il ritorno di fiamma dei nazionalismi europei, avrebbero dovuto, secondo De Ruggiero, aprire una discussione sulla necessità dell’esperimento internazionalista: grazie alle riviste, ai quotidiani, ai saggi, ai dibattiti pubblici, all’arte, ai cinema, alle radio. Quel che non era possibile attuare mediante un piano politico, foriero di divisioni, particolarismi ed interessi, si doveva provare a realizzare attraverso il piano della cultura, un piano pronto a soddisfare quel bisogno di sapere, di conoscenze e di curiosità che la società richiedeva, ovvero un internazionalismo della cultura che il filosofo napoletano definì: serio, efficace, ricco di promesse. Un internazionalismo che non era ancora maturo in sede politica, a causa di livori e odi ancora vivi tra le nazioni, ma che, per De Ruggiero, era “maturo in sede culturale, dove si manifestano chiari segni di un consensuale accordo e dove tutte le divisioni che potranno in seguito sorgere non potranno mai turbare l’unità raggiunta. Tutto sta che i due piani non vengano confusi e che il più basso non inquini il più alto”.

Le traiettorie per sfuggire ed oltrepassare la crisi a livello europeo erano state tracciate; l’unica soluzione gravida di futuro necessitava però di una fitta rete di democrazie che collaborassero tra loro e che, cogliendo l’occasione propizia, sapessero portare in porto il lungo viaggio dell’idea europea.

La corrente liberaldemocratica si fece interprete di tale necessità e tentò di realizzare l’agognata costruzione della futura democrazia italiana.