Le procedure per i micro acquisti da parte della Pubblica Amministrazione implicano costi occulti fino al 22%

Le prassi adottate dagli enti pubblici per la gestione dei micro-acquisti (inferiori a 5.000 euro) comportano dei costi ‘occulti’ che accrescono in maniera sostanziale la spesa pubblica sostenuta per tali acquisti, fino al 22%.

È quanto emerge dallo studio di Nomisma realizzato con l’obiettivo di comprendere modalità e prassi di funzionamento del sistema di acquisti dei beni al di sotto della soglia di rilievo comunitario da parte degli enti della Pubblica Amministrazione, con particolare attenzione ai beni di importo inferiore ai 5.000 euro (acquisti spot e acquisti long tail).

L’analisi di Nomisma si è articolata in tre parti: una rassegna di normative, procedure e strumenti di acquisto dei beni al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria da parte della PA; un approfondimento delle modalità di azione da parte di un campione di Comuni italiani; e un’ultima parte dedicata all’ascolto di alcuni enti della pubblica amministrazione come Regioni, Comuni, scuole e università, per analizzare le loro abituali prassi di acquisto e calcolarne l’incidenza sul valore dei prodotti acquistati.

Fatta salva la possibilità di ricorrere sempre alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti possono procedere all’affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie, attraverso affidamenti diretti e procedure negoziate. La procedura di affidamento varia a seconda dell’importo dell’appalto.

Gli impatti degli acquisti diretti

Le interviste condotte hanno messo in luce come le procedure d’acquisto per i micro-acquisti degli enti comunali implichino dei costi che accrescono in maniera sostanziale la spesa pubblica sostenuta.

In media nazionale, nel caso di acquisti inferiori ai 5.000 euro, i costi delle procedure accrescono la spesa pubblica del 22% rispetto al valore del bene acquistato; nel caso di acquisti inferiori ai 500 euro, tale percentuale sale addirittura al 60%. Ciò significa che le attuali prassi di acquisto fanno sì che per un bene del valore di mercato di 50 euro il Comune spenda un totale di 80 euro.

Le procedure di acquisto utilizzate, pur semplificate, richiedono infatti passaggi decisionali ed autorizzativi che impegnano un numero rilevante di ore/uomo. A questo si aggiunge il tempo per la ricerca dei fornitori, per la selezione delle offerte e per la gestione dei pagamenti. I passaggi procedurali possono arrivare fino a 11, dalla selezione dei fornitori all’archiviazione della determina, passando per diverse approvazioni e verifiche, coinvolgendo anche 4 risorse umane distinte.

Un altro fattore critico rilevato attraverso le interviste è rappresentato dall’impossibilità da parte della PA di utilizzare la carta di credito come strumento di pagamento, cosa che impedisce di fatto l’acquisto di beni e servizi attraverso piattaforme di e-commerce.

Inoltre, sempre dall’analisi di campo, emerge come i Comuni, specie di piccole dimensioni, utilizzino poco l’e-procurement, preferendo ricorrere a fornitori locali nel rispetto del principio di rotazione. Viceversa, Enti quali Università e istituti scolastici adottano di buon grado le piattaforme elettroniche di acquisto, per quanto per gli Atenei le forniture di valore inferiore ai 5.000 euro rappresentino una parte marginale degli acquisti totali.

Infine, l’indagine ha rilevato che in alcuni casi i beni acquistati tramite convenzioni vengano conservati nei magazzini centrali della PA, contribuendo ad aumentare le scorte di anno in anno e determinando in tal modo un’inevitabile obsolescenza dei prodotti Hi-Tech.

La ricerca è stata commissionata da Amazon Business.