L’uomo oltre l’impresa, il modello Olivetti

Lorenzo Della Corte

C’è stato un sogno in Italia, un sogno di un ingegnere che, oltrepassando le ferree logiche del fordismo, ha tentato di costruire un nuovo modello di fabbrica non volto solamente al profitto ma che, al contrario, ponesse al centro di ogni logica produttiva l’uomo e lo sviluppo della sua personalità. Questo sogno è stato realizzato da Adriano Olivetti che, prendendo le redini dell’attività avviata dal padre Camillo, ha costruito un modello industriale divenuto, con il tempo, fonte di ispirazione per molti.

Olivetti, dopo una laurea in ingegneria chimica al Politecnico di Torino e un “Gran tour” nelle principali industrie statunitensi, prese le redini dell’azienda paterna deciso a rivoluzionare il mondo dell’industria e a dare concretezza alle proprie visioni. Forte di una formazione costruita in anni di studi e viaggi, Adriano Olivetti seppe trasformare la propria fabbrica da realtà di provincia in una dei principali player internazionali nel settore della tecnologia meccanica. 

Gli anni in cui Adriano ha guidato l’Olivetti sono stati un periodo di grandi cambiamenti e innovazioni. Le sue intuizioni, unitamente ad una maniacale cura del dettaglio, portarono la società ad imporsi sul mercato globale producendo macchine da scrivere che non furono solamente funzionali, ma rappresentarono un oggetto di design oltreché l’incarnazione di un ideale, di una visione.

Il pensiero olivettiano divenne sinonimo di solidarietà e giustizia sociale. Infatti, Olivetti sosteneva che non l’uomo doveva essere al servizio della tecnica, bensì la tecnica avrebbe dovuto essere al servizio dell’uomo. I lavoratori, secondo Olivetti, dovevano guardare al proprio lavoro con gioia e non “come tormento: tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, che non giovi ad un nobile scopo”. Da questa consapevolezza scaturì l’obiettivo di produrre beni che sapessero coniugare bellezza e razionalità, rendendo partecipi e coscienti gli operai che di quei beni erano i produttori e, intellettualmente, i proprietari. 

Nella logica olivettiana non è l’operaio che serve l’impresa, ma deve essere l’impresa a servire l’operaio e, proprio per questo, egli tentò di costruire una realtà innovativa dove poter garantire quei servizi che considerava necessari allo sviluppo intellettuale e spirituale dei propri dipendenti. Ivrea, nel secondo dopoguerra, divenne così un’oasi di diritti sociali e welfare aziendale. Tra le principali conquiste vi furono: riduzione orario di lavoro a parità di salario, nove mesi di congedo maternità con il 100% della retribuzione, funerali pagati per tutta la famiglia, asili per i figli dei lavoratori e parità salariale tra donne e uomini.

La fabbrica, dunque, doveva rappresentare un luogo di progresso, un progresso che non poteva realizzarsi solamente nel suo sviluppo tecnico, ma che doveva permettere conquiste civili e sociali. Un luogo in cui poter costruire una comunità dove il lavoro non doveva condurre all’alienazione del lavoratore, ma, al contrario, avrebbe dovuto permettere all’operaio di riconoscere nelle proprie attività una ragione sociale nonché la coscienza della propria funzione all’interno della comunità. Funzione che non terminava nell’essere parte dell’ingranaggio, ma si realizzava in una prospettiva solidale più ampia. La fabbrica, secondo Olivetti, doveva “distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia”, egli pensava “la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” e, proprio per questo, intendeva “superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”. È attraverso  questa consapevolezza che l’operaio avrebbe potuto sviluppare le proprie competenze e, così, riuscire a raggiungere migliori risultati per sé stesso e, di riflesso, per l’impresa. Da questa consapevolezza nasce e si sviluppa il concetto di “comunità” che, per Olivetti, è un luogo di democrazia in cui il lavoratore ha a cuore l’impresa e l’impresa, allo stesso modo, ha a cuore il benessere dei lavoratori, poiché senza la cura dei propri dipendenti non può esserci progresso sociale. Su questo si fonda l’esperienza olivettiana, un’esperienza che ha tentato di costruire una società equa, giusta e solidale.

A riprova di questa comunione, Olivetti dichiarò: “a volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”.

Dunque, nella teoria olivettiana il fine è sempre l’uomo, non il prodotto né, tantomeno, il guadagno e il lavoro è lo strumento, inteso non solamente come mezzo di sopravvivenza ma come dimensione di identità personale, con il quale l’individuo può realizzare sé stesso e partecipare, in maniera attiva, al progresso sociale e non esaurire la propria esistenza nell’esercizio in un gesto meccanico.

Purtroppo, la prematura morte di Olivetti condizionò il percorso del progetto di fabbrica sociale che, durante la sua direzione non fu utopia, ma realtà. Una testimonianza fra le tante dell’importanza di quanto sviluppato dalla Olivetti sono le parole di Tiziano Terzani che, nella sua intervista testamento con il figlio Folco, descrisse così la fabbrica di Ivrea:

“L’Olivetti non era soltanto la fabbrica per fare le macchine, era la fabbrica per fare le macchine per costruire una società in cui l’uomo vivesse a sua dimensione. I più grandi intellettuali italiani sono passati da lì, attratti non tanto da un piccolo stipendio, quanto dall’idea di contribuire a un grande progetto. […] L’Olivetti era l’unica azienda che, non operando con criteri puramente aziendali, voleva rifare la società usando parte dei profitti datti con le macchine da scrivere. […] L’idea era che bisognava avvicinarsi alla base di questa benedetta società per capirla e dare una mano a cambiarla, che non eravamo all’Olivetti solo per produrre le macchine, che ci eravamo per produrre una nuova società. C’era una casa editrice, c’erano spettacolo teatrali, balletti, e soprattutto c’era la biblioteca con attività culturali la sera. […] Voglio dire, l’Olivetti aveva questo sogno”.