Noi credevamo. Avanguardie moderniste tra antigiolittismo e volontà palingenetiche

Lorenzo Della Corte

«L’Italia così com’è non ci piace!», questo grido lanciato da Giovanni Amendola è la formula generazionale che guidò il cammino delle avanguardie moderniste che – dalle pagine delle numerose riviste dell’epoca – dominarono il panorama culturale italiano nei primi del Novecento. La proteiforme galassia avanguardista, unita «più dagli odi che dai fini comuni», come ebbe modo di dire Prezzolini, era composta da una eterogenea ragnatela di pensieri che monopolizzarono il dibattito culturale italiano, soprattutto attraverso la diffusione di numerose riviste, tra le quali: La Voce, Il Leonardo, Il Regno, L’Unità, Lacerba e Poesia. Questo magma culturale individuò in Giolitti e nel suo pragmatismo la propria nemesi.

Il primo quindicennio del Novecento ha visto lo statista piemontese essere il dominusassoluto dello orizzonte politico italiano. Il piano di Giolitti intendeva condurre il Regno d’Italia lungo una graduale modernizzazione sostenuta, altresì, da Filippo Turati, principale esponente dell’area riformista del Partito socialista. I governi presieduti da Giolitti furono formati da maggioranze eterogene, basate su un consenso clientelare e sulla capacità di assimilare e contenere le spinte progressiste del Partito socialista. Il disegno giolittiano intendeva, infatti, controllare le velleità rivoluzionarie propugnate dagli esponenti del socialismo massimalista, divenendo egli stesso il vettore di un percorso di democratizzazione controllata e di integrazione delle masse attraverso un progressivo allargamento della base sociale dei propri governi. Questo progetto risultò vincente fino all’inizio degli anni ’10, tantoché Ivanoe Bonomi, esponente del socialismo riformista, nel 1907, suggerì una svolta laburista per il PSI.

Il disegno dello statista piemontese non trovò, però, il favore della generazione figlia del nuovo secolo. Gioacchino Volpe, pur riconoscendo i progressi avvenuti nell’età giolittiana, non esitò a criticare lo stato liberale per non essere riuscito a realizzare le grandi aspettative risorgimentali. Giolitti e l’intera classe dirigente liberale vennero così identificati dagli avanguardisti non solo come i responsabili del tradimento perpetuato nei confronti dei valori risorgimentali, ma anche come la reincarnazione del pensiero guicciardiniano. L’uomo del Guicciardini – alieno a qualsivoglia velleità eroica e interessato essenzialmente al proprio particulare, in nome del quale è sempre pronto a sacrificare qualsiasi interesse superiore; dalla patria alla religione, dalla libertà all’onore e alla gloria –  divenne in tal modo l’incarnazione del nemico da combattere e sconfiggere. Francesco De Sanctis, denunciando come l’origine della fiacchezza morale degli italiani fosse la diretta conseguenza della cattiva influenza esercitata sui loro spiriti dall’uomo guicciardiniano, proclamò la condanna a morte di «quest’uomo fatale» che impedisce la via, qualora non si abbia la forza di «di ucciderlo nella nostra coscienza». Bisognava, dunque, procedere all’estirpazione di questo vulnus dall’animo degli italiani, solo così si poteva rigenerare la nazione dalla propria «insanabile decadenza». 

Dello stesso fu il filosofo Giovanni Gentile che continuò lungo il solco tracciato da De Sanctis e, nel 1919, esortò a proseguire il processo di rigenerazione avviato sotto le tempeste d’acciaio della Prima Guerra Mondiale: «Il vecchio uomo non è morto, e ci insidia e ci alletta e ci attraversa la via. Noi dobbiamo combatterlo e annientarlo, e la lotta è aspra, perché quest’uomo è tanta parte di noi».

In contrapposizione a quell’Italia, avvertita vetusta e corrotta, emerse così una nuova élite di giovani, epigoni del Risorgimento incompiuto, dominati da volontà palingenetiche, inebriati dal mito della giovinezza, ispirati dal superomismo, suggestionati dalle labirintiche logiche della filosofia della crisi e decisi a recidere i legami con la cosidetta Italietta di Giolitti, ritenuta grigia e meschina, per dirigersi verso agognati destini di grandezza e vanagloria. 

Dopo l’attentato di Sarajevo futuristi, nazionalisti, vociani, liberal-conservatori e molti anche tra i futuri giellisti furono elettrizzati da una passione interventista militante. La Grande Guerra venne interpretata come l’occasione per una palingenesi nazionale, come la prova del fuoco per rinsaldare lo spirito vincendo il grigiore liberale, come l’esame dei popoli. La guerra doveva essere la fine di un mondo tumefatto, un momento carico di decisione, doveva rappresentare l’attimo fatale in cui la nuova trincerocrazia avrebbe spazzato via il peso morto della classe liberale. Ernesto Rossi, partito volontario nel 1916, definì questa generazione una «nuova giovanissima élite sbocciata dalla guerra che mirava a un radicale mutamento di tutta la vita pubblica italiana, attraverso un audace e franca revisione dei valori morali oggi correnti».

Anche Marinetti prese prepotentemente parte al conflitto generazionale. Nel luglio 1916, dalle pagine de L’Italia Futurista, proclamò agli studenti italiani: «Noi paroliberi, pittori, musicisti, rumoristi, architetti e misuratori futuristi abbiamo sempre considerata la Guerra come unica ispirazione dell’Arte, unica morale purificatrice, unico lievito della pasta umana. Soltanto la Guerra sa svecchiare, accelerare, aguzzare l’intelligenza alleggerire ed aerare i nervi, liberarci dai pesi quotidiani, dare mille sapori alla vita e dell’ingegno agl’imbecilli. La Guerra è l’unico timone di profondità della nuova vita aeroplanica che prepariamo. La guerra, futurismo intensificato, non ucciderà mai la guerra, come sperano i passatisti, ma ucciderà il passatismo. La Guerra è la sintesi culminante e perfetta del progresso (velocità aggressiva + semplificazione violenta degli sforzi verso il benessere). La Guerra è una imposizione fulminea di coraggio, di energia e d’intelligenza a tutti. Scuola obbligatoria d’ambizione e d’eroismo; pienezza di vita e massima libertà nella dedizione alla patria». 

Il culto del progresso, il valore palingenetico della guerra, la tensione eroica, il mito della virilità dominò questa generazione che mise al centro del suo pensiero l’italianismo che – depurato dalle scorie di secoli di servilismo e sonnolenza – divenne l’Idea-forza di questa generazione di credenti senza religione, di cultori della violenza purificatrice e rigeneratrice, di sognatori naufragati e spiriti irrequieti, di costruttori di avvenire, di vinti dalla storia.