Kosovo, radici di un conflitto

Lorenzo Della Corte
Lorenzo Della Corte

I venti di guerra che spirano ad est del Dnepr soffiano forte e rischiano di accendere fuochi sopiti, ma mai del tutto estinti. Negli ultimi giorni sono tornati in auge vecchi rancori sul confine tra Serbia e Kosovo, due nazioni in conflitto che, visto anche l’appoggio degli Stati Uniti (Pristina) e della Federazione Russa (Belgrado), non è riuscito a trovare una soluzione definitiva, nonostante l’intervento delle Nazioni Unite.

La questione kosovara ha radici profonde che possono essere rinvenibili fin dalla dominazione Ottomana, oltreché in scelte diplomatiche poco lungimiranti e in dissidi religiosi che, in questa terra di confine, trovano un terreno estremamente fertile. Prendendo in prestito la terminologia di Stein Rokkan, il Kosovo può essere definita come una  “periferia interfaccia”, ovvero dei “territori che si trovano tra la pressione incrociata di grandi blocchi”. Il Kosovo, infatti, è sempre stato un territorio conteso le due principali etnie della regione, ovvero quella serba e quella albanese. 

Le due etnie rivendicano, ciascuna con assoluta sicurezza, di essere i legittimi abitanti di questa terra e legittimano tale pretesa attraverso opposti presupposti nazionalistici. Se il popolo serbo rintraccia il proprio legame secolare con questo territorio proclamando che “la piana dei merli”, ovvero Kosovo Polje, è la culla della propria civiltà; il nazionalismo albanese (kosovaro) contrappone alla narrativa patriottica serba un’ascendenza all’antico popolo degli Illirici, primi ad abitare questo territorio conteso, di cui gli albanesi si ritengono i diretti discendenti.

Le cause del conflitto etnico in Kosovo si possono rintracciare all’origine del processo di state – building dello stato albanese. Nel 1912, durante i negoziati successivi alla Prima guerra Balcanica, il Kosovo venne escluso dai confini albanesi e venne incorporato nel Regno di Serbia. Il risultato di tali negoziati, focalizzati più su questioni politiche ché etniche, fu quello di trasformare gli stati balcanici in degli stati arlecchino. Il territorio, a maggioranza albanese, divenne così una periferia di Belgrado che intraprese una politica di slavizzazione della regione incontrando fin da subito una forte resistenza della popolazione, soprattutto nella regione Drenica.

La sovrapposizione di cleavages linguistici, religiosi e demografici ha reso esplosiva la situazione kosovara, in quanto lo scontro si è radicalizzato tra due opposti nazionalismi che, temendo per la propria sopravvivenza, hanno alzato l’asticella delle ostilità. Prendere in considerazione il tasso di incremento demografico di etnia albanese in Kosovo negli anni ’90 può aiutare a comprendere la natura deflagrante dei rapporti serbo – albanesi. La popolazione albanese in Kosovo è, infatti, passata dal 65,8% del 1921 al 90% del 1990; mentre i serbi sono diminuiti dal 26% all’8%.

La minoranza serba, conscia della propria subalternità demografica, ma forte dell’appoggio di Belgrado, tentò più volte di assimilare la componente schipetara, promuovendo politiche volte alla soppressione della lingua e della cultura albanese, ma tali iniziative dovettero scontrarsi con un netto rifiuto della controparte, dovuto al valore identitario che il nazionalismo albanese ha sempre riposto nelle proprie peculiarità linguistiche, ritenute una caratteristica fondamentale della propria cultura.

La popolazione albanese, difatti, considera la propria lingua il più antico idioma europeo e, riprendendo gli studi di Rokkan, sappiamo come la lingua “non è solo uno strumento di comunicazione; è anche un criterio di appartenenza e di identità, una parola d’ordine. […] la lingua è il destino”. 

La storia della penisola balcanica è costellata di numerosi momenti di tensione tra le diverse popolazioni che vi risiedono ed uno dei maggiori elementi di conflitto nella regione è, senz’altro, la contrapposizione religiosa che ha radici antichissime. Già in epoca ottomana il movente religioso fu motivo di conflitto. Infatti, il popolo albanese si professò fedele alleato del Sultano, mentre i serbi decisero di osteggiare l’avanzata ottomana e si opposero all’islamizzazione non accettando la dominazione turca. Il conflitto religioso, dopo un momentaneo tramonto in epoca comunista, riprese vigore negli anni Novanta con la rinascita del nazionalismo serbo che attribuiva al credo ortodosso un ulteriore motivo di frizione con la componente kosovaro – albanese convertitasi alla religione islamica. 

Il percorso che ha condotto il Kosovo all’indipendenza ha conosciuto vari mutamenti istituzionali. Sotto la presidenza titina – nel 1974 – il Kosovo divenne una provincia autonoma e vennero concessi dei riconoscimenti per la maggioranza etnica albanese che chiedeva, altresì, di ascendere al grado di repubblica federale. L’autonomia concessa dal Maresciallo Tito venne mal digerita dal popolo serbo. L’anno che segnò la svolta fu il 1989 con l’elezione di Slobodan Milošević come Presidente della Serbia. La sua politica nazionalista fu rivolta alla neutralizzazione delle pretese autonomistiche delle minoranze della Federazione e diede nuova linfa alle speranze della rinascita di una «Grande Serbia».

Nel marzo 1989 la presidenza Milošević diede il via ad una politica centralistica che comportò la soppressione delle autonomie concesse al Kosovo. Questa politica nazionalista vide il suo incipit nel discorso che Slobodan Milošević tenne a Gazimestan per il seicentesimo anniversario della Battaglia della Piana dei Merli. In questa occasione il Presidente Milošević, arringando la folla, disse: “nessuno dovrebbe sorprendersi se questa estate la Serbia ha alzato la sua testa a causa del Kosovo. Il Kosovo è il centro esatto della sua storia, della sua cultura e della sua memoria. Ogni nazione ha un amore che scalda il suo cuore. Per la Serbia è il Kosovo”. Il discorso ebbe una forte eco a livello nazionale e venne ascoltato da circa un milione di serbi presenti in loco.

I kosovari – albanesi dal canto loro avevano già cominciato ad alzare la voce con le “primavere di Pristina” del 1981-82, quando gli studenti kosovari scesero in piazza richiedendo migliori condizioni di vita e la costituzione di una repubblica di Kosova. La repressione jugoslava non si fece attendere e fu brutale. 

In questi anni di fibrillazione, fu Ibrahim Rugova a condurre le volontà indipendentistiche kosovare e, con la sua Lega Democratica del Kosova (LDK), guidò il popolo kosovaro nel decennio 1989-1999, costituendo una società parallela opposta al centralismo di Belgrado. I kosovari di etnia albanese, non riconoscendo più la sovranità centrale, boicottarono tutte le istituzioni serbe e decisero di non partecipare più alle elezioni, arrivando a costituire un sistema partitico regionale a sé stante. Rugova, nell’estate del 1990, proclamò l’indipendenza (2 luglio 1990) opponendosi alle politiche di Belgrado e tale scelta venne ribadita da un referendum, non autorizzato, che, nel 1991 con un’affluenza pari all’87% della popolazione, confermò la volontà indipendentistica con il sì del 99,98% dei votanti. I serbi, intorno al 10% della popolazione, boicottarono il referendum. Il risultato, però, non ottenne alcun riconoscimento internazionale, solo l’Albania riconobbe l’esito referendario. 

La politica non violenta di Rugova riuscì a contenere il conflitto fino al 1996 quando lo stillicidio degli episodi di violenza si trasformò in una vera e propria guerra civile. Dal 1997 in poi gli indipendentisti trovarono nell’ “Esercito di liberazione del Kosovo” (UÇK) una nuova guida ed essi, con l’appoggio della Nato, condussero il Kosovo durante il conflitto.

L’internazionalizzazione delle ostilità in Kosovo è risultata fondamentale nel processo di state – building dello stato balcanico. L’intervento della Nato prima e dell’Unione Europea in seguito, e il contestuale ruolo subalterno della Russia di Eltsin, permise di creare i presupposti affinchè il popolo kosovaro potesse rendere effettiva e sicura la propria indipendenza. Il partito LDK provò fin dai primi anni ’90 a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, non trovando però attori pronti a farsi carico della causa kosovara. L’UÇK di Thaçi riuscì laddove Rugova aveva fallito, essi ottennero l’appoggio dell’amministrazione Clinton e riuscirono a divenire i principali referenti del governo a stelle e strisce, nonostante solo pochi anni prima fossero stati etichettati come dei terroristi. 

Nel febbraio del 1999 nel castello di Rambouillet si tenne il negoziato diplomatico che rese la questione kosovara non più una questione prettamente di politica interna serba, come era stata considerata nel 1995 a Dayton, ma divenne una questione di rilevanza internazionale. L’intervento della Nato nel marzo del 1999, senza alcuna legittimazione delle Nazioni Unite, fu fortemente voluto dall’ UÇK che, grazie all’appoggio dell’aviazione statunitense, riuscì a prevalere sull’esercito serbo e a creare i presupposti per la nascita della Repubblica del Kosovo. 

La Risoluzione ONU 1244 del 10 giugno 1999 sancì che, sotto la guida delle Nazioni Unite, il KFOR avrebbe occupato il Kosovo al fine di stabilizzare la regione e a tempo debito indire elezioni per determinare le forme dell’autonomia ma non dell’indipendenza kosovara.

Nel novembre 2007 si tennero nuove elezioni dopo la morte del Presidente Rugova. Tali elezioni furono boicottate dalla popolazione serba e da questa tornata elettorale uscì vincitore il PDK, ex UÇK, di Hashim Thaçi con il 35% dei voti. Essendo scaduti nel dicembre del 2007 i negoziati per stabilire lo status del Kosovo, il Presidente Thaçi, con l’assenso dell’Unione Europea che diede il proprio avallo costituendo l’Eulex, una forza di duemila amministratori alla quale era affidato il compito di collaborare e costruire le strutture amministrative sulle quali il nuovo Stato avrebbe dovuto sorreggersi, proclamò l’indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008). 

La proclamazione dell’indipendenza non placò le frizioni che continuano a dominare i rapporti tra Belgrado e Pristina, soprattutto nella regione a nord di Mitrovica, ovvero nel Kosovo del nord, dove risiede la maggior parte dei serbi del Kosovo, i quali, pur facendo parte del territorio del nuovo stato kosovaro, non riconoscono il parlamento di Pristina e sono governati dal Parlamento serbo.