Polizia, esclusa per tatuaggio e poi riammessa

D.S.

Un piccolo tatuaggio alla caviglia le era costato la possibilità di entrare in Polizia. Ma ora il Consiglio di Stato l’ha riammessa al concorso da cui era stata esclusa. Secondo il quale il simbolo – il suo nome di battesimo scritto in arabo – non è certo «deturpante» come sostenuto invece dall’Amministrazione dell’Interno. È la storia di I.S., una ragazza che, dopo essersi vista respingere il ricorso dal Tar del Lazio, dovrà ora essere riammessa alle prove dalle quali era stata esclusa. La giovane aveva partecipato alla selezione per un concorso per 1.507 allievi agenti della Polizia di Stato ma era stata esclusa perchè la Commissione medica concorsuale, nel corso della visita per accertare l’idoneità psico-fisica della candidata, aveva notato il tatuaggio «in una zona del corpo non coperta dall’uniforme». La Commissione si è appellata al decreto ministeriale 198 del 2003 nella parte in cui si sostiene che possa essere escluso dalle prove chi ha «tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme o quando, per la loro sede o natura» questi «siano deturpanti o, per il loro contenuto, siano indice di personalità abnorme». Una posizione condivisa dai giudici del Tar del Lazio. Completamente opposta, invece, è stata l’interpretazione data dalla sesta sezione del Consiglio di Stato. Scrivono infatti i giudici che «giova ricordare che il tatuaggio della ricorrente, di piccole dimensioni e collocato sulla caviglia sinistra, è costituito da un segno grafico monocromatico in lingua araba con la traduzione del nome di battesimo». E dunque «il Collegio ritiene che la sussistenza della causa di non idoneità non possa desumersi dal mero riscontro del tatuaggio, dovendo l’Amministrazione valutare la visibilità dello stesso». Secondo i giudici insomma «non può sostenersi nel caso di specie» che il tatuaggio assuma «alcuna attitudine deturpante nè alcuna idoneità a costituire indice di personalità abnorme».