Yamabushi, gli asceti della montagna

Lorenzo Della Corte

Sospesi tra mito e leggenda, nascosti tra le vette innevate delle sacre montagne di Dewa Sanzan nel Giappone settentrionale, vivono i discendenti di un’antica comunità religiosa: gli Yamabushi, monaci – guerrieri dalle bianche tuniche, consacrati all’eremitaggio e all’ascetismo.

Gli Yamabushi, letteralmente “coloro che dormono sui monti”, sono dei monaci seguaci dello Shugendō: un credo sincretico fondato sulla commistione del buddhismo esoterico (Mikkyō) e lo sciamanesimo. Questa pratica religiosa, risalente al VII secolo, ha tra le sue peculiarità e caratteri distintivi una profonda e sincera venerazione per la natura e, in particolare, per le montagne (Sangaku shinkō). I monti, nella cultura popolare nipponica, hanno sempre avuto un’aura misteriosa, luogo di sepoltura e di preghiera, essi sono stati rappresentanti come il territorio di ciò che non è umano: dimora di spiriti ancestrali, luogo di congiunzione tra il divino e l’antropico. Le vette divengono un passaggio verso l’aldilà, ben espresso dal concetto di shide no yama, ovvero: “montagna del viaggio d’oltretomba”. Fondatore mitico di questo credo e antenato degli yamabushi fu il leggendario En no Gyōja. Figura mistica di cui in antichi testi giapponesi si narrano eventi strabilianti che lo hanno visto protagonista lungo il corso della sua vita, En no Gyōja viene descritto come un mago dotato di poteri sovrannaturali: la peculiare capacità di sottomettere i demoni alla propria volontà, nonché una altrettanto straordinaria abilità di scalatore, che lo ha messo in relazione con un gran numero di vette sacre inaugurando così la via del pellegrino per i suoi discepoli. 

Hiromasa Ikegami nel suo “The Significance of Mountains in the Popular Beliefs of Japan”, distinse cinque tipologie di culto: a) le montagne meta di pellegrinaggio strettamente associate agli spiriti dei morti b) le montagne venerate per se stesse in quanto costituiscono il “corpo della divinità”; non vi si sale, ma le si onora dal basso c) le montagne su cui inerpicarsi, allo scopo di congiungersi con la divinità sulla cima d) le montagne presidio delle anime dei defunti e) le montagne proprie dello Shugendō: pendii di ascesi ed eremitaggio. Questi territori mistici sono gli spazi di solitudine e silenzio conquistati e prescelti dai monaci pellegrini per intraprendere il loro percorso ultramondano. La scalata dei monti non viene vissuta dai monaci solamente come un tracciato verso l’illuminazione, la salita in sé si sostanzia nell’illuminazione, è un’ascesi: diviene il compimento di un cammino volto alla trasumanazione. Lungo il sentiero l’eremita lascia dietro di sé le scorie della civilizzazione, le sue corruzioni, i suoi vizi e le sue pulsioni, abbandona altresì il suo essere uomo, andandosi a congiungere in un amplesso mistico con il circostante. Lo yamabushi non è in cammino per giungere sulla vetta, egli diviene la vetta.

Gli interminabili pellegrinaggi di questi raminghi dalle bianche tuniche sono costellati di innumerevoli e costanti esercizi psicofisici, ritenendo la fatica fisica necessaria ed imprescindibile per l’ottenimento di una vita spirituale. Durante il cammino gli yamabushi smettono di lavarsi, di prendersi cura di sé: è necessario recuperare una primitiva bestialità, sentire la natura primigenia e abbandonare il proprio corpo sulla montagna. Sono soliti temprare i propri corpi con le più disparate vessazioni, desiderano avere esperienza tangibile delle torture dell’inferno. Mortificano la carne, sottoponendo la propria volontà alle più ardue asperità al fine di dimostrare la raggiunta purificazione e l’ottenimento di forze sovrannaturali. Tra le prove più temibili annoveriamo: il hiwatari, ovvero il camminare sul fuoco; i riti di yudate, ovvero la purificazione con l’acqua bollente; la pratica kugadachi, ovvero la prova dell’acqua bollente e, inoltre, la meditazione sotto gelide cascate. Lo Shugendō prevedeva altresì l’espiazione dei peccati per mezzo del sacrificio della vita. Tale suicidio rituale era praticato dagli yamabushi con il shashin – gyō, “pratica di abbandono del corpo”. Lo yamabushi attraverso estenuanti prove fisiche, rigorose pratiche iniziatiche e interminabili ore di contemplazione dei mandala, conduce il proprio io alla morte per poi rinascere in una veste sovrumana: la metamorfosi dei monaci si compiva nel loro divenire dei taumaturghi, capaci di addomesticare i demoni, compiere esorcismi e guarire dalle malattie, divenendo così delle figure di mediazione tra l’uomo e Dio e tra la natura e l’uomo.

Un’antica tradizione rappresenta, inoltre, i mistici eremiti delle montagne del nord come degli invincibili guerrieri, abili praticanti del ninjutsu e maestri del Naginata-do, un’arte marziale praticata con il naginata: un’arma inastata composta da un lungo manico di legno con una lama ricurva al vertice.

In un mondo dominato dal baccano, dove si sovrappongono voci gracchianti a strepitii di clacson; dona pace conoscere l’esistenza di realtà isolate, lontane dal clamore e dal chiacchiericcio, che resistono alla modernità. Luoghi mistici dove l’udito non protende verso l’esterno, ma tende ad ascoltare ciò che si trova nascosto dentro ognuno di noi, quel che rimane incontaminato e puro: questo tu sei “Tat tvam asi”.

Bisogna, dunque, dare forza ai sogni che non vedono l’uomo dominus incontrastato del creato, bensì lo immaginano in simbiosi con il circostante, in armonia.