Propaganda e censura, agli albori della comunicazione politica

Lorenzo Della Corte

La regolamentazione dei flussi comunicativi è sempre stata una prerogativa di chi detiene il potere e, nel corso dei secoli, si è appurato che chi controlla le informazioni può guidare e influenzare il popolo. Gli strumenti maggiormente utilizzati sono sempre stati due: censura e propaganda.

A tal proposito, seppur l’utilizzo del termine propaganda per il Cinquecento può risultare anacronistico, in quanto l’età dell’oro di tale fenomeno è riscontrabile in epoche successive, specialmente in concomitanza con la preponderante entrata sulla scena politica delle masse, è interessante ricordare le modalità con le quali venivano gestite le notizie e le informazioni in epoca moderna. Infatti, nonostante nella prima età moderna manchi una strategia comunicativa pianificata e finalizzata ad influenzare le opinioni dei sudditi che, in quanto sudditi, non dovevano essere persuasi, ma solo costretti ad obbedire e, inoltre, non essendoci alcun rapporto di reciprocità tra potere e popolo, in quanto l’élite considerava la popolazione non come un destinatario cosciente della volontà autoritaria, bensì veniva reputata un soggetto passivo e noncurante delle attività di governo; i regnanti, sebbene tutte queste considerazioni, reputavano opportuno controllare il sentimento popolare, poiché, seppur non considerato essenziale, il consensus populi era ritenuto quantomeno utile ai fini politici del potere e, per tali ragioni, la commistione di censura e propaganda fu uno strumento utile al potere per dirigere la collettività. Il compito del governo non era quello di convincere, quanto quello di controllare, di censurare, di non permettere che si propagassero idee, opinioni, che avrebbero potuto mettere in discussione quel che doveva essere considerato dogma.

Il sovrano non doveva solamente limitare il discorso, ma anche ascoltare il mormorio delle strade per evitare di essere disarcionato come accadde ai nobili lucchesi accusati da Giovanni Guidiccioni, nel 1531, di non aver prestato attenzione alle “voci d’inchiostro” che circolavano per la città. Le carte non avevano altro significato se non quello che “il populo con voce muta grida contra quei che governano”.Paolo Sarpi, il servita che ingaggiò una guerra di scritture contro Roma in difesa della Serenissima, concorda con il Guidiccioni: le opinioni del popolo è pernicioso ignorarle, dunque, è d’obbligo doverle saper manovrare nella maniera più efficiente possibile. Le opinioni, però, non andavano gestite e regolate attraverso la propaganda, non era opportuno trovare giustificazioni al potere, esso non andava legittimato, la sua esistenza doveva essere considerata un dogma inconfutabile: traeva forza da null’altro fuorché sé stesso o direttamente dalla volontà divina.

Non la propaganda, dunque, ma la censura era la chiave per mantenere sotto controllo il consenso popolare. Le menti del popolo, secondo il gesuita Antonio Possevino, non andavano abbandonate a loro stesse, al contrario, le menti dovevano essere “coltivate”, ovvero guidate e governate da una “candida et prudente” censura. Lo stesso Sarpi individuerà nella censura lo strumento prediletto dall’autorità cinquecentesca per il controllo della popolazione.

Francesco Guicciardini è dello stesso avviso, tra il popolo e il potere vi sarebbe dovuta essere una “nebbia” che avrebbe permesso ai potenti di governare con mano libera, non dovendo rispondere all’opinione popolare, la quale, essendo tenuta all’oscuro, sarebbe stata conscia di quel che accade nei Palazzi della propria città quanto di quel che sarebbe potuto accadere in India.

Il potere doveva agire in maniera mistica e perentoria, la sua voce doveva essere sentenziosa: non si sarebbe accettato un dialogo, la volontà del sovrano è un monologo che non tollera repliche. Fu proprio Hobbes, delineando il suo Leviathan, ad esporre come non fosse competenza dello stato discutere le opinioni circolanti per lo spazio pubblico, bensì il suo compito e destino era quello di mettere a tacere per legge quelle voci considerate pericolose per la salute pubblica. Il sovrano, sempre secondo Hobbes, doveva infatti ritenere di primaria importanza, per assicurare la concordia e la pace, che l’unica voce legittimata ad essere definita “pubblica” fosse la propria e nessun’altra. La legittimazione della sovranità della voce governativa veniva mostrata al pubblico attraverso la punizione esemplare dei reati di opinione.

Questi strumenti, con le dovute differenziazioni, continuano ad essere utilizzati e riproposti in numerosi regimi che reprimono il dissenso e divulgano una narrativa lontana dalla realtà che, però, non sempre riesce a reprimere l’impeto delle libere idee.